La bimba cerebrolesa che “ha dato vita” all’ospedale di Livorno

(da “Caring”del 26 /06/2012 de’ La Quercia Millenaria)

 

La piccola cerebropatica che non parla e si nutre con il sondino, adottata dal reparto di pediatria dell’ospedale di Livorno due anni e mezzo fa, continua a parlare. Questa volta lo fa tramite la voce delle infermiere che la assistono. Simona è la più affezionata alla bimba, come spiega a tempi.it: «È come la mia seconda figlia. Lo dico davvero, se andasse via sarebbe come lasciare una parte di me. Per il suo bene desidero che sia adottata, ma mi mancherebbe». Simona, infatti, oltre che negli orari di lavoro sta con la piccola appena può. E in ospedale porta anche la figlia naturale. Due anni

e mezzo fa non l’avrebbe mai fatto né detto. «Se me lo avessero chiesto? Avrei dato della matta a una madre che porta sua figlia davanti a tanta sofferenza». Ora invece la bambina è diventata amica dei figli di tutto il personale. Come mai? «Innazitutto non c’è solo dolore: vedere la forza di questa guerriera che lotta per vivere e che cerca il nostro affetto insegna a chi la assiste a rendersi conto di quanto ha. Delle piccole cose. Mia figlia, poi, la porto qui perché passi del tempo con quella che considera sua sorella e si accorga di quanto siamo fortunati. Ma sopratutto di quanto si possa essere felici con poco». Felici? In stato vegetativo? «La piccola è contenta della sola presenza nostra, delle minime attenzioni, delle nostre carezze. Questo insegna a me e a mia figlia a vivere: vale la pena lottare per la vita come fa lei. Ora non assecondo più i capricci. Anzi quando li fa le ricordo la sua “sorellina” e lei capisce». La sofferenza degli innocenti fa ribellare. Molti per questo arrivano a dire che è meglio la morte.

«Sono onesta, due anni e mezzo fa lo pensavo anche io. Mi dicevo: se una persona non parla, se è costretta a letto, se si nutre con il sondino è condannata a una sofferenza senza senso. Mi sbagliavo perché mancava qualcosa». Non c’è evidenza scientifica, dicono alcuni. «Purtroppo le macchine non possono misurare cose come l’amore e la felicità: possono dire quello che vogliono, che una vita in questo caso non abbia un significato, ma ora non ci casco più. Sotto i miei occhi c’è altro».

Ed è qualcosa di così evidente che tutto il reparto ora la pensa come Simona. «È così. Noi passiamo con lei ventiquattro ore su ventiquattro. Non c’è spiegazione scientifica che possa negare quello che vediamo: la bimba sente il contatto, sente se ci siamo, patisce se ha bisogno, gioisce del nostro

affetto. Si accorge di come viene accarezzata, di come le si sussurra nell’orecchio. Sente che noi la amiamo». Un bel mistero questa piccola. «Un mistero che ci insegna tanto. Ci insegna che tutto quello che c’è, se c’è, è perché ci deve essere. Ci insegna l’amore che comunica».

Ad esempio, spiega Rossella, un’altra infermiera che si definisce “la zia”, «la bimba ci unisce nel curarla, facendoci capire che se anche non possiamo guarirla vale la pena comunque dare tutto per assisterla». Anche quando nulla può cambiare dal punto di vista clinico: «È una vita che chiede

amore e che ne genera anche di più». E si vede. «Appena uno di noi arriva in reparto chiede di lei ai colleghi del turno precedente: come è andata la notte? Come è stata oggi? E poi si passa in cameretta ». Impressiona pensare che fermi in un letto si possa fare tanto: «Per questo le saremo tutti

grati. Per sempre».